L'influenza degli stilisti giapponesi d'avanguardia sulla moda italiana

Scritto da Laura Dimitrio -

Quando si considera l’abbigliamento giapponese, il pensiero corre al kimono, che è l’emblema della moda giapponese e che ha riscosso grande successo in Europa e in Italia soprattutto a partire dalla fine dell’Ottocento, durante il fenomeno del giapponismo. Da allora diversi sarti e stilisti occidentali, tra cui gli italiani Giorgio Armani e Gianfranco Ferré, hanno realizzato indumenti liberamente ispirati al taglio del kimono e ai suoi motivi decorativi.

Vi è stato poi chi, come lo stilista Fausto Puglisi, ha tratto ispirazione anche da altri indumenti tradizionali, come ad esempio lo yukata.

Eppure non solo l’abbigliamento tradizionale del Giappone, ma anche la moda nipponica contemporanea è stata fonte di ispirazione per la moda ‘occidentale’, compresa quella italiana.

Ho sostenuto questa tesi nel volume che ho recentemente pubblicato a proposito delle influenze giapponesi sulla moda italiana e che ho scelto di intitolare Non solo kimono (ed. Skira, 2021) proprio per sottolineare il fatto che non è stato solo il kimono a rivoluzionare la moda italiana, ma anche la moda giapponese d’avanguardia.

Infatti alcuni fashion designers giapponesi - tra cui Kenzo Takada e Issey Miyake a partire dagli anni Settanta del Novecento e Yohji Yamamoto e Rei Kawakubo dall’inizio degli anni Ottanta - cominciarono a proporre le loro creazioni a Parigi e divennero un punto di riferimento imprescindibile anche in Italia per i creatori di moda anticonformisti.

Più recentemente, negli Anni Novanta del Novecento, sono nate in Giappone alcune subculture, come quelle delle Lolita, ovvero ragazze vestite come bambole dell’Ottocento e i cosplayer, ovvero giovani vestiti come i personaggi dei manga o degli anime. Con l’inizo del nuovo millennio tali subculture si sono diffuse anche all’estero, compresa l’Italia, dove si è affermato lo stile ‘kawaii’. caratterizzato da abiti con un tripudio di fiocchetti e cuoricini.

In questo articolo mi soffermerò soprattutto sull’impatto che le proposte dei fashion designers giapponesi d’avanguardia hanno avuto sulla moda italiana.

Secondo la sociologa Yuniya Kawamura, Kenzo Takada, Issey Miyake, Yohji Yamamoto e Rei Kawakubo con il suo marchio Comme des Garçons hanno compiuto una “Japanese Revolution in Paris Fashion” che si è poi propagata in tutto il mondo1. In che cosa consisteva tale rivoluzione? Anzitutto i loro abiti erano larghi e destrutturati, ben diversi da quelli ‘occidentali’ che solitamente sottolineavano invece la silhouette delle donne. Inoltre le loro creazioni, soprattutto quelle di Yamamoto e di Kawakubo, erano spesso asimmetriche, talvolta sfilacciate, con buchi e imperfezioni che sottendevano un ideale di bellezza assai diverso da quello ‘occidentale’. Del resto questi fashion designers, nonostante rifiutassero l’etichetta di ‘giapponesi’, sono stati inevitabilmente influenzati dalla cultura e dall’estetica del loro paese d’origine, in cui è fondamentale il concetto di wabi sabi, che potrebbe essere tradotto con “bellezza imperfetta e incompleta”. Un'altra caratteristica comune a questi stilisti era la sperimentazione con i materiali. Per le loro creazioni essi infatti utilizzavano spesso tessuti insoliti, frutto del recupero di antichi metodi di lavorazione o, al contrario, di studi ipertecnologici. Ad esempio Issey Miyake ha rivalutato lo shibori, una tintura a riserva tradizionale giapponese, mentre per la linea “Pleats Please”, avviata nel 1993, ha brevettato una tecnica innovativa con cui produce abiti high-tech in poliestere plisettati a caldo.

All’inizio, le collezioni dei fashion designers giapponesi d’avanguardia furono stroncate dalla stampa e dalla clientela. In Italia, ad esempio, la loro moda venne definita “postatomica”, perché le modelle che indossavano i loro ‘stracci’ sembravano sopravvissute a un’esplosione nucleare. Ben presto però, i giornalisti e gli operatori del settore della moda di tutto il mondo compresero la portata del loro stile innovatore.

Alcuni stilisti italiani si sono dimostrati particolarmente ricettivi nei confronti delle novità introdotte dai colleghi giapponesi, che tuttavia non sono state imitate pedissequamente, ma rielaborate in modo del tutto originale. Ogni stilista italiano ha infatti interpretato alcuni tratti della moda giapponese d’avanguardia alla luce della propria sensibilità artistica.

Uno dei primi fu Romeo Gigli che, dalla seconda metà degli anni Ottanta, con i suoi abiti ampi e morbidi fornì una propria personalissima interpretazione del minimalismo nella moda di cui Miyake, Yamamoto e Kawakubo sono considerati antesignani.

Il suo stile presentava affinità anche con quello di Kenzo, per la capacità di mescolare sapientemente in uno stesso indumento riferimenti ad abiti folk di luoghi lontani, dal Giappone al Sudamerica, al Medio Oriente.

Un altro stilista italiano sensibile allo stile di Kenzo è Antonio Marras, che è stato direttore creativo della Maison Kenzo dal 2003 al 2011. Durante quella proficua collaborazione, Marras ha avuto modo di familiarizzare con i tratti distintivi della Maison Kenzo, che hanno lasciato traccia in lui anche negli anni successivi, quando lo stilista sardo ha continuato autonomamente il proprio percorso artistico. L’accostamento di fantasie e colori diversissimi, così come la capacità di contaminare alcuni aspetti degli abiti tradizionali della propria terra di origine (il Giappone nel caso di Kenzo, la Sardegna nel caso di Marras) con quelli di altre culture vestimentarie paiono l’eredità principale che il fashion designer giapponese ha trasmesso a Marras, il quale ha tuttavia definito un proprio, unico, alfabeto espressivo in cui trovano spazio anche riferimenti al kimono.

Così come la collaborazione con Kenzo ha rappresentato una sorta di imprinting nella produzione di Marras, analogamente l’esperienza di Ennio Capasa a Tokyo negli anni Ottanta, presso l’atelier di Yohji Yamamoto, è stata decisiva per la sua carriera. Come ha raccontato lo stesso Capasa nella sua autobiografia Un mondo nuovo pubblicata nel 2015 e dedicata proprio ai suoi anni giapponesi, egli apprese da Yamamoto un rigoroso metodo di lavoro. Anche la predilezione per il nero e per l’asimmetria negli abiti sono tratti dello stile di Capasa desunti da Yamamoto e poi da lui rielaborati quando lo stilista di origine pugliese è tornato in Italia e ha fondato nel 1986 insieme al fratello Carlo il marchio Costume National.

Last but not least, la fashion designer Daniela Gregis, che ha aperto il suo atelier nel 1997 a Bergamo, propone indumenti spesso asimmetrici, con tessuti stropicciati o arricciati di estrema qualità. Per queste caratteristiche le sue creazioni presentano assonanze con quelle di Rei Kawakubo-Comme des Garçons, nonostante lo stile di Daniela Gregis sia unico e immediatamente riconoscibile.

Così scrive il professor Sergio Gabbiadini

Laura Dimitrio, Non solo Kimono

Non solo Kimono, non solo moda, non solo Giappone … Laura Dimitrio insegue il Kimono ricostruendo, con una varietà di sguardi prospettici, le vicende di lungo periodo che ne caratterizzano la funzione e la natura: le condizioni economiche di produzione, scambio e uso in mutamento storico, le relazioni sociali e politiche che evidenzia, gli ambienti di vita privati e sociali in cui si impone, le abitudini di sguardo di attenzione che alimenta, il suo impatto sui costumi e sulla moda in Giappone, nell’Occidente europeo e, in particolare, in Italia. Contesti in cui il kimono e la moda esprimono la propria natura di segno entrando a pieno titolo nel campo della semiotica.

La narrazione di Laura Dimitrio si colloca nella cultura “orientale”. Come lei stessa precisa, le categorie “occidentale” e “orientale” sono fittizie, “stereotipi” di sapore colonialistico ma, per utile orientamento, possono valere le parole dello scrittore giapponese Tanizaki Junichiro, in Libro d’ombra (1935): «La nostra immaginazione indugia su ogni raggrumarsi dell’ombra; gli Occidentali conferiscono, persino ai fantasmi, la trasparenza del vetro. I colori che amiamo, negli oggetti della vita quotidiana, sembrano il risultato di molti strati d’oscurità; gli Occidentali amano ciò che brilla, come per luce diurna. Ci piace che argento e rame acquistino la patina del tempo; per gli Occidentali, la patina significa sporcizia e mancanza di igiene, e non cessano di strofinare i metalli perché acquistino la fulgidezza voluta. Nelle stanze in cui abitano, illuminano ogni anfratto, e imbiancano pareti e soffitti. Rasano i prati, che a noi piacciono cosparsi di cespi selvosi. Quale l’origine di gusti tanto dissimili? V’è, forse, in noi Orientali, un’inclinazione ad accettare i limiti, e le circostanze, della vita. Ci rassegniamo all’ombra, così com’è, e senza repulsione. La luce è fievole? Lasciamo che le tenebre ci inghiottano, e scopriamo loro una beltà. Al contrario, l’Occidentale crede nel progresso, e vuol mutare di stato. È passato dalla candela al petrolio, dal petrolio al gas, dal gas all’elettricità, inseguendo una chiarità che snidasse sin l’ultima parcella d’ombra». Occidentale e orientale si muovono tra diversi contrari: luce e tenebre, colori e ombra. La prima opposizione (occidentale) è logica della contraddizione, della nitida definizione, monodirezionale; la seconda (orientale) è logica di attenzione all’accadere, di composizione e continuo adattamento. Colore e ombra si oppongono in se stessi, ogni colore ha in sé il proprio essere ombra, e non formano un’antinomia di contrari. «Come quell’irriducibile elemento di mistero che è l’essenza profonda del Giappone, e ancora resiste alla comprensione di chi viene da altre parti del mondo. D’altronde, c’è luogo, o persona, che non abbia imperscrutabili zone d’ombra? E non è proprio questo lato segreto delle cose, sempre e ovunque, ad attirarci?» (Antonietta Pastore, Sul filo degli incontri, in Racconti del Giappone, 2021).

Proprio nella relazione tra colori e ombra (anche bianco e nero), si definisce la sensibilità di sapore “orientale” che caratterizza la moda (e non solo) giapponese e il suo perenne influsso. Accolta e espressa soprattutto dai fashion designers giapponesi d’avanguardia come Kenzo, Miyake, Yohji Yamamoto e Rei Kawakubo, Dimitrio espone i tratti della moda nipponica contemporanea ripercorrendone gli influssi anche sulla moda italiana. Alcuni caratteri su cui è modulata la densa narrazione di Laura Dimitrio.

1-La libertà del colore e dei motivi: alla tinta unita delle abitudini “occidentali”, si oppone «…un tripudio di motivi naturalistici giapponesi - tra cui, oltre a fiori di ciliegio, rami fioriti e canne di bambù anche farfalle, libellule, gru e aironi in volo su uno sfondo di nuvole dorate o sopra distese marine spumeggianti…» (p. 149).

2-La libertà nel colore si lega alla libertà della forma: il vestito (kimono) non sottostà ad esigenze di simmetria, anzi «l’asimmetria è un tratto distintivo» della moda nipponica d’avanguardia, «è la grande intuizione spaziale giapponese» (p. 152 e 191, 193, 199).

3-Varietà dalle radici profonde: a differenza degli obiettivi “occidentali”, la cultura giapponese non cerca la perfezione, ma accetta il limite; una «bellezza imperfetta e incompleta … [sono] concetti fondamentali dell’estetica giapponese» (p.142, 164).

4-Come in un climax, nell’abbigliamento giapponese d’avanguardia si riscontra un “elogio dell’imperfezione”, un’“estetica dell’imperfezione”: “i tessuti non perfetti e i capi non finiti, poiché … la condizione di non-finito proietta gli indumenti nel futuro» (p. 164-166, 199), i “difetti” voluti, «strappi, buchi nei vestiti e tessuti stropicciati» (p. 165, 194)

5-Sempre nella moda nipponica d’avanguardia prende spazio un minimalismo, una dichiarazione di povertà, "estetica della povertà", “less is more”, sia nella scelta di materiali poveri, naturali e di recupero: «i vestiti possono essere realizzati con qualunque materiale», sia nella adozione di forme sciolte e essenziali (p. 163, 192, 200, 209-214).

6-L’allontanamento dei vestiti dal corpo; come nelle proposte di Kenzo, Miyake, Yamamoto e Kawakubo. Il vestito destrutturato in forme fluide e tendenzialmente oversize (p. 171-173) ha l’effetto di restituire libertà al corpo: «lo spazio vuoto che nei loro indumenti larghi inevitabilmente si creava tra abito e corpo era in stretta relazione con il concetto giapponese di ma, generalmente tradotto con "intervallo, spazio fra". […] nella cultura nipponica ma "è più di un semplice vuoto: è uno spazio ricco che possiede un'energia incommensurabile"» (p. 164, e cfr. 75-76,169, 183, 194); e ha l’effetto di restituire libertà al vestito nel suo gioco di vela/rivela, ne afferma l’autonoma funzione simbolica materiale e formale in libertà espressiva: «l’uso del tessuto come materia viva destinata ad avvolgere il corpo senza costringerlo in nessun tipo di sagoma prestabilita». (p. 194) Quest’ultimo dato diventa decisivo e produttivo anche nell’occidentale «pot-pourri di influenze asiatiche, mischiate con quelle nipponiche». I mutamenti sono profondi: gli stilisti giapponesi d’avanguardia «… non si sono limitati a lanciare una nuova ed effimera tendenza, ma hanno "cambiato il gioco della moda": hanno cioè sovvertito i canoni estetici tradizionali mediante la decostruzione dei codici sartoriali e hanno stabilito nuove interazioni tra abito e corpo, proiettando così la moda contemporanea nell'era postmoderna». (p. 164).

L’analisi di Laura Dimitrio attua un nuovo incontro: moda e arte; si arriva alla moda a partire dall’arte. Arte che fa capo ai tratti di una estetica contemporanea, quella che, dopo “la morte dell’unicum” (di tesi romantica), crea opere-modelli anche in vista di una loro serialità (come nell’opera-manifesto di Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa 1936). La natura di modello/modulo del kimono, la sua plasticità, si evidenzia nella sua trasformazione materiale e formale e nelle contaminazioni tra “oriente” e “occidente”. Laura Dimitrio parla di: interpretazioni, fusioni, rielaborazioni, trasformazioni, modifiche, metamorfosi, variazioni, attualizzazioni, interventi, rivisitazioni, incroci, riprese, mescolanze, contaminazioni, ibridazioni… (p. 64, 67, 110, 112, 126 …). Collocati nella loro logica “orientale” (tra colori e ombra) questi termini svelano l’essenza del kimono, la sua natura di modello e idea, il suo prestarsi a divenire segno-chiave di comprensione di mutamenti e di flussi storici; in una parola, ne svelano il karma: nelle rinascite si addensa il karma (termine «Che si può riassumere in due parole: raccogliamo ciò che abbiamo seminato di buono o di cattivo nel corso delle precedenti esistenze» Mélissa da Costa).

Nel testo di Laura Dimitrio il Kimono è semiotica, arte, karma … non solo moda.


Note

1. Y. Kawamura, The Japanese Revolution in Paris Fashion, Berg, Oxford-New York, 2004. ↩︎

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