La lacca rossa intagliata
al Museo d'Arte Orientale di Venezia. Dalla Cina al Giappone

Scritto da Laura Tonetto Museo d'Arte Orientale di Venezia -

Lunga vita assicura la lacca, così recita un’antica credenza orientale.

Il diaoqi, la tecnica della lacca intagliata, comparve in Cina durante l’epoca dei Song Meridionali e si sviluppò durante la dinastia Yuan, per raggiungere la piena maturità durante l’epoca Ming. Alla dinastia Qing corrispose una fase d’impoverimento tecnico e stilistico.

La manifattura di scatole e oggetti in lacca prevede la posa di molti strati di lacca sovrapposti, da un minimo di 4 mm a 1 cm: occorre infatti uno spessore idoneo a ricevere l’intaglio. Inoltre, la tecnica include l’utilizzo di vari colori: rosso, nero, giallo e verde. Il primo (hóng) è dato dall’aggiunta di cinabro, un minerale tossico derivato dal solfuro di mercurio; simbolo di vita e gioia, associato al fuoco e al principio dello yang, diventa il colore dinastico proprio durante l’epoca Ming.

Le lacche cinesi del Museo sono state realizzate tra il XVII e il XIX secolo, a testimonianza di una produzione ininterrotta. Uno sguardo attento rivela una virtuosistica tecnica d’intaglio, che mette in luce i sottostanti strati policromi (rosso alternato a nero), con effetti coloristici che distinguono nettamente il fondo dal rilievo. Il portapennelli nella foto qui sotto ispira il letterato con la raffigurazione dei sette saggi nel bosco di bambù, desiderosi di purificare l’anima attraverso la fuga dal mondo verso la natura incontaminata, secondo la cultura taoista dell’oblio.

La tecnica della lacca rossa intagliata, sin dai tempi più remoti, incantò anche gli interpreti dell’estetica giapponese d’élite. Per la precisione, risale al XIII secolo una rinnovata infatuazione per l’arte cinese da parte della classe militare locale. L’importazione non era sufficiente a soddisfare il mercato interno e nacquero così le prime botteghe di tsuishu. Secondo la tradizione, la scuola giapponese d’intaglio sarebbe nata a metà del XIV secolo grazie alla famiglia Yōsei, attiva a Edo; tuttavia si possiedono notizie certe solo del settimo maestro, Heijirō, morto nel 1654, che si sarebbe ispirato ai nomi di due famosi intagliatori cinesi (Yōmo e Chōsei) per la scelta del nome d’arte.

In generale, la lacca intagliata non raggiunse mai la popolarità del makie in Giappone, né tantomeno la sua perfezione artigianale. Il passaggio della tecnica tra i due paesi comportò anche una diversa declinazione stilistica: i giapponesi prediligevano nettamente l’uso del solo rosso all’alternanza di vari colori. Inoltre, il suo utilizzo, pensato in Cina per suppellettili, piccoli mobili anche per i templi e piedistalli di sculture, cofanetti, scatole e vassoi, si restrinse a oggetti di piccole dimensioni. Ciò è testimoniato dagli oggetti conservati in Museo, nella sala IX e nella X: una ventina tra inrō e netsuke, le scatoline portaerbe a scomparti e i loro contrappesi.

Le vetrine n. 14 e 15 di sala X espongono un numero ristretto di inrō, estremamente interessanti, in lacca rossa intagliata. Sono pezzi di buona fattura, piuttosto pesanti, di un bel colore rosso vermiglio, datati tra il XVIII e XIX secolo. Sia l’intensità del colore, sia la densità del materiale sono indicatori di pregio: il primo implica l’uso di cinabro importato dalla Cina; mentre il secondo è dato dalla quantità di strati (almeno 30), che permettono a loro volta una lavorazione su tre livelli. Non bisogna farsi ingannare, tuttavia, dalla loro pesantezza o dalla profondità dell’intaglio e ritenere che siano in pura lacca. Questa veniva applicata su una base di legno sottile o, nei pezzi migliori, su un’anima di carta imbevuta di lacca.

I motivi decorativi privilegiano la narrazione di famose leggende o la raffigurazione di personaggi mitologici cinesi, sempre inseriti in un paesaggio naturale; le piante e gli animali raffigurati innescano un’associazione simbolica, in particolare legata a salute e alla longevità, temi consoni alla destinazione d’uso degli inrō. Ad esempio, nella parte sinistra della foto qui sotto si nota un giovane con un rotolo in mano, circondato da crisantemi: si tratta di Kikujido, il cortigiano dell’imperatore Muh Wang, esiliato per aver toccato inavvertitamente un cuscino, il quale con la preghiera e una dieta a base dei suddetti fiori divenne immortale. Oppure, a destra, troviamo Chōkarō, l’immortale taoista con la sua zucca magica, nella quale nascondeva un cavallo famoso per non stancarsi mai.

La prossima foto mostra la differenza tra diversi livelli d’intaglio: a sinistra si può vedere un lavoro di bassa qualità, dovuto alla lavorazione su un unico livello, con due varietà di fiori di crisantemo che coprono l’intera superficie, senza lasciare intravedere lo sfondo. A destra, l’inrō mostra una casa terrazzata immersa in un paesaggio montano con alberi di pino (altro simbolo di longevità); i dettagli della casa si staccano nettamente dallo sfondo decorato in bassorilievo, mentre il tutto è racchiuso in un medaglione lobato.

Sempre alla tradizione cinese rimandano i motivi geometrici che riempiono lo sfondo di ogni scena o paesaggio, in netto contrasto con la tradizione pittorica giapponese, che prevede l’assenza di colore. Ogni pattern, spesso derivato dalla tradizione tessile, va interpretato come una convenzione simbolica che permette all’osservatore di leggere meglio la rappresentazione; il loro significato viene formalizzato in Cina durante l’epoca Ming. Successivamente questi motivi arrivano in Giappone tramite i tessuti. Ad esempio, nella foto 2, entrambi i personaggi sono su uno sfondo ricoperto dal motivo asanoha (nome giapponese), un esagono stellato che dovrebbe rimandare all’aria. Nella foto qui sotto (destra), il motivo sul fondo della terrazza è chiamato hanabishi (nome giapponese) il rombo fiorito che rappresenta la terra, mentre la sommità si distingue per un pattern a meandro, un’alternativa rispetto al precedente asanoha, che simboleggia il cielo ricoperto di nuvole.

Proseguendo incontriamo i netsuke: molti materiali potevano essere utilizzati per questi oggetti, sebbene la lacca dipinta fosse poco adatta a causa della ristretta superficie a disposizione per il disegno. Il tsuishu, al contrario, era perfetto per la decorazione di un piccolo oggetto scultoreo di forma rotonda o squadrata. Di norma, tali oggetti erano creati dallo stesso intagliatore che lavorava sui portaerbe medicinali. La lacca veniva sempre applicata sopra un supporto ligneo leggero (paulonia, cipresso o magnolia); questi contrappesi erano spesso prodotti come set insieme all’inrō e la loro leggerezza era ideale per evitare danni in caso di contraccolpi.

Il tipo più comune usato per l’intaglio è il manjū, composto da due valve circolari cave, dotate di un particolare sistema per il passaggio del cordoncino: questo passa attraverso un foro nella metà posteriore, per essere legato ad un anello interno alla metà anteriore. Forma popolare nel XIX secolo grazie alla sua funzionalità, prende il nome da una ciambella dolce ripiena di pasta di fagioli originaria della Cina. Ben presto si diffondono delle varianti, come quella detta hako (“scatola”), nella quale l’oggetto ha forma, e spesso funzione, di contenitore. Meno frequente in tsuishu risulta la tipologia più famosa il katabori, la figurina umana o animale a tutto tondo, modellata con particolare attenzione alla resa realistica.

La foto qui sotto presenta due esempi per le tipologie più comuni, esposti nella vetrina n. 13 in Sala IX, entrambi datati al XIX secolo: a sinistra un manju a forma di crisantemo, il fiore della longevità, effigiato con tre corone di petali e il bottone centrale dorato; associato all’autunno, resiste a lungo al freddo senza perdere i petali ed è considerato un talismano per la buona salute. L’oggetto a destra è del tipo hako, con base liscia la cui porzione superiore è decorata con l’immagine di un uomo accompagnato dal minogame, l'imortale tartaruga dalla lunga coda, associata spesso a figure divine o eroiche.


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