Poeti giapponesi
Il tempo di una nuova poesia

A cura di Maria Teresa Orsi e Alessandro Clementi -

Nel 1998, Ōoka Makoto, uno dei maggiori poeti giapponesi del Novecento, oltre che autore di importanti saggi di critica e storia della letteratura giapponese, pubblicava un testo intitolato "現代詩の鑑賞 101" (Gendashi no kanshō 101, che si potrebbe con qualche approssimazione rendere con 101 esempi di poesia contemporanea). Tradotto in inglese nel 2012 (101 Modern Japanese Poems) e in francese nel 2014 (101 Poèmes du Japon d’aujourd’hui), l’opera offriva anche al lettore “occidentale” non specialista la possibilità di leggere e apprezzare alcune fra le opere più significative della poesia prodotta in Giappone nel corso del Novecento. Non si trattava però della poesia tradizionale - waka, haiku - che affonda le sue lontane radici in epoca classica e che è ben nota da tempo anche in Italia, dove aveva e ha tuttora una vasta folla di estimatori ed esperti, ma della poesia in verso libero (shi) nata in Giappone alla fine del XIX secolo.

Il termine completo che la indicava (e che la indica tutt’ora) è kōgo jiyū-shi (lett. poesia libera in lingua colloquiale), laddove jiyū=libertà non si limitava solo alla possibilità di non essere più legati ai canoni contenutistici e formali della poesia tradizionale, ma arrivava ad abbracciare significati più vasti. A proposito di questa nuova forma poetica, nel 1904, Shimazaki Tōson, che ne era uno dei principali esponenti, scriveva nella prefazione di una sua raccolta una frase rimasta famosa nella storia della letteratura giapponese: «Finalmente è giunto il tempo di una nuova poesia. È come un’alba meravigliosa». Un’alba che “risveglia da un lungo sonno la più fresca e vitale immaginazione, la veste delle parole della tradizione popolare” e “avvolge la natura di nuovi colori”; dove giovani “dall’arte ancora acerba” ma “limpida e sincera”, fino ad oggi “in balia dell’amarezza e del tormento della modernità”, spinti da questa “marea montante e traboccante” passano “notti insonni e dimenticano di mangiare”, mentre “la vita rende turgide le loro labbra e lacrime di emozione solcano le loro guance”. “I lamenti e le sofferenze restano nelle nostre poesie. Se lo pensi, dillo. Dillo senza timori”.

L’inno di Tōson, ancorché fortemente inserito nell’alveo “romantico” della concezione poetica, allora dominante, risuona comunque come un grido liberatorio. In un Giappone in cui il concetto di libertà (per come inteso in un “occidente” da cui il Paese era ansioso di imparare) era stato introdotto da meno di cinquant’anni, la poesia a verso “libero” offriva uno strumento nuovo per affrontare vis-à-vis un mondo da cui ci si sentiva oppressi. Anche se il suo uso per una contestazione sociale diretta verrà rimandato agli anni a venire (la poesia “vera” restava quella di stampo classico, inadatta a tale compito), il verso libero apriva un campo dalle immense possibilità a chi anelava a una libertà dal carattere più personale, che poteva solo intuire e di cui iniziava a intravedere i contorni.

Da allora, lo shi, sebbene nato ispirandosi ai modelli poetici occidentali, avrebbe rapidamente iniziato un suo cammino autonomo, mantenendo e sottolineando, come fisionomia che lo differenziasse anche dai propri modelli classici, una libertà metrica e tematica affiancata ad una altrettanto radicale libertà nell’uso della parola. «La poesia contemporanea – scrive Ōoka Makoto - racchiude tutte le preziose risorse della lingua giapponese, che ci permettono di risvegliare nel profondo della nostra interiorità l’immenso fiume di parole che scorre senza interruzione».

Da queste premesse parte l’iniziativa della casa editrice Einaudi, Poeti giapponesi, che – come recita la quarta di copertina - presenta «ventidue autori e autrici scelti fra le generazioni che si sono susseguite a partire dai nati negli anni Venti, come Ishimure Michiko, fino a Fuzuki Yumi nata nel 1991» e che si inserisce quindi in un panorama, sia pure di nicchia, che già può contare in Italia opere sulla poesia giapponese in verso libero, come Il coro temporaneo di Andrea Raos (2001) e Introduzione alla storia della poesia giapponese dall’Ottocento al Duemila di Pierantonio Zanotti (2012).

Ripercorrendone la storia, si può constatare che, se fino alla prima metà del XX secolo le principali linee della nuova poesia giapponese mantenevano ancora, nel nome se non nella sostanza, un esplicito riferimento ai movimenti artistici europei (dal romanticismo, al naturalismo, al simbolismo, al modernismo) successivamente, abbandonati anche i richiami nominali, lo shi avrebbe proseguito il suo percorso originale, pur non rinunciando ma anzi intensificando il dialogo, questa volta non più su un piano di dipendenza, ma di reciproco scambio, non solo con le principali correnti che si sviluppavano nel vecchio continente e negli Stati Uniti, ma anche con la stessa poesia canonica della tradizione giapponese. In particolare, gli anni successivi alla fine della guerra del Pacifico, che aveva inevitabilmente segnato una drammatica cesura con le esperienze degli anni precedenti, avrebbero messo in evidenza la necessità di riprendere per la poesia, come del resto per la prosa e il teatro, la ricerca di nuove forme espressive. In questo percorso il segno di un rinnovamento è stato affidato, soprattutto nei primi tempi, proprio alla poesia in verso libero che, pur avendo ormai alle spalle anni di sperimentazione e illustri esponenti di alto livello – da Kitahara Hakushū a Takamura Kōtarō, Hagiwara Sakutarō, Miyazawa Kenji, Nakano Shigeharu - restava più suscettibile, rispetto a waka e haiku, di trasformazioni anche radicali, meno limitata da imposizioni formali e contenutistiche.

Un fondamentale ruolo in direzione di un “nuovo corso” fu svolto dalla rivista Arechi (Terra desolata, 1947-1948) che, nel clima creatosi alla fine della guerra e nonostante la presenza di un nuovo tipo di censura, questa volta imposto dalle forze di occupazione, inseriva come elemento principale della propria ricerca poetica l’esperienza della guerra e della sconfitta. Viceversa, il compito di sviluppare un discorso, meno ideologicamente connotato e aperto a nuove sperimentazioni formali, fu assunto in breve tempo da altre riviste e da una generazione di poeti nata negli anni Trenta e quindi meno segnata dalle esperienze della guerra.

I grandi maestri di questa nuova corrente sono Ōoka Makoto, recentemente scomparso, e Tanikawa Shuntarō.

La ritmicità della frase, il linguaggio limpido e colloquiale, l’apparente semplicità delle immagini, accompagnata sempre dall’intento di andare al di là della descrizione per comunicare qualcosa di essenziale sulla condizione e sulle relazioni umane, sono componenti costanti nell’opera di Tanikawa, nel corso degli anni arricchitasi via via di nuove possibilità, che vanno dalla riproposta della metrica classica, al sonetto, ai testi di canzoni, a poesie “condivise” con altri poeti, giapponesi e stranieri. Ōoka Makoto è stato a sua volta appassionato sostenitore di un linguaggio poetico che fosse espressione della parte più profonda dell’animo umano, coniugando questa interpretazione lirica della poesia, che riecheggia le più famose definizioni elaborate dalla tradizione classica, con immagini nutrite di irrazionale e di sogni, evidenti segni della sua partecipazione ai canoni del surrealismo.

Oggi, Tanikawa Shuntarō, ben consapevole del suo ruolo di icona della poesia contemporanea giapponese, a chi lo intervista accenna fuggevolmente al privilegio di essere nato in una famiglia di intellettuali, di non aver sofferto in modo particolare dei disagi della guerra, sottolineando con una certa ironica noncuranza la sua scarsa propensione giovanile per gli studi e la sua mancata partecipazione alle lotte studentesche. Amante della musica classica e di Beethoven, circondato da un consenso generale e indiscusso, Tanikawa accoglie gli ospiti nella sua grande casa che sorge in uno dei quartieri residenziali di Tokyo, indossando con elegante nonchalance una delle numerose tshirts dove è stampato il testo di una delle sue più famose filastrocche, kappa kapparatta kapparappa kapparatta, e parlando con orgoglio della sua Cinquecento Fiat gialla parcheggiata accanto alla sua abitazione.

La generazione di Ōoka e Tanikawa, nel corso degli anni Settanta e Ottanta, in concomitanza con l’evolversi della situazione sociale e lo sviluppo economico del paese, aveva di fatto allargato i territori della poesia ad altre esperienze, consolidandone il rapporto non solo con le arti figurative, ma anche con il teatro, il cinema, i programmi radiofonici e televisivi, fino all’industria dei gadget. Negli stessi anni l’uso sempre più frequente della lingua colloquiale all’interno delle poesie potenziava la consuetudine da parte degli autori di leggere in pubblico le proprie opere (rōdoku), o meglio ancora di offrirne una interpretazione vocale.

Eccezionale in questo campo il ruolo di Yoshimasu Gōzō, venuto alla ribalta in quegli stessi anni e tuttora fra i poeti più conosciuti in Giappone e all’estero per le sue sperimentazioni condivise, non solo nel campo della poesia, ma anche in quello delle arti figurative, della musica jazz, della fotografia, del cinema.

Dall’epoca del suo esordio fino a oggi, la poesia di Yoshimasu ha continuato a esplorare i limiti dell’espressività linguistica, ma se nei primi testi degli anni ’60 era possibile rilevare una sia pur frammentaria architettura logica, negli anni successivi la sperimentazione si traduce molto spesso nella mancanza di coerenza testuale, anarchia sintattico-grammaticale, immagini folgoranti, onomatopee reiterate. La recitazione delle proprie poesie si trasforma in una straordinaria performance, eseguita con intensa partecipazione fisica e sottolineata dall’incalzante ritmo di un piccolo martello, e basata su modulazioni della voce quasi allucinate, che si ispirano dichiaratamente alle declamazioni delle sciamane (itako) di Osoresan, remoto centro di culto popolare nell’estremo nord della principale isola del Giappone. Estroverso, sorridente, maestro nell’arte della comunicazione, Yoshimasu negli incontri informali - per i quali predilige un abbigliamento disinvolto e in apparenza poco ricercato, sul tipo di quello che solo i grandi artisti possono concedersi - conserva lo stesso carisma e la stessa carica magnetica che hanno garantito il successo delle sue performances, memorabili per l’impatto emotivo oltre che sul piano artistico.

Volendo usare a tutti i costi il metro delle semplificazioni, potremmo dire che se Yoshimasu sembra aderire all’immagine dell’artista al limite della stravaganza, Fujii Sadakazu rappresenta in qualche misura l’opposto. Poeta raffinatissimo, ma anche filologo, studioso di letteratura classica, autore di saggi di grande profondità e originalità, appassionato studioso del Genji monogatari (La storia di Genji, XI secolo) al punto da volerne proporre, in collaborazione con altri studiosi, a partire dal 2017, una nuova edizione commentata e tradotta in giapponese moderno, tendenzialmente schivo e chiuso in un suo mondo di erudizione e cultura classica, ha tuttavia affrontato nelle sue poesie - e forse anche nella vita - problemi di grande attualità e impegno, oltre che una sua battaglia contro la guerra e le discriminazioni sociali o religiose. Nella sua produzione poetica è evidente come la sfida delle convenzioni coesista con la scelta di inserire nella sua opera il patrimonio culturale giapponese, non necessariamente quello riconosciuto, trasmesso e canonizzato attraverso i secoli, ma piuttosto quello più nascosto o dimenticato: la poesia orale, le leggende di ieri e di oggi, o ancora il folclore, gli antichi culti sciamanici sopravvissuti nelle culture delle regioni più marginali, in senso geografico quanto culturale, come Okinawa e l’Hokkaidō. Talvolta affiora qualche frammento di nostalgia per gli anni delle lotte studentesche o il ricordo di una religiosità contadina ormai scomparsa: così, il nome di una delle più rumorose e congestionate stazioni di Tokyo, Kanda (alla lettera “risaia delle divinità, risaia sacra”), si trasforma in un’immagine di lontani terrazzamenti di risaie che quasi magicamente tornano a far parte del paesaggio, e diventa proiezione della shitamachi, la “città bassa” a cui Kanda appartiene: quella shitamachi che degrada verso le sponde del fiume Sumida e che in tempi premoderni si identificava con i quartieri di artigiani e mercanti, gli stessi evocati nostalgicamente, già agli inizi del Novecento, da grandi scrittori come Tanizaki e Nagai Kafū, le cui opere hanno contribuito, con la loro idealizzazione, a creare una visione della shitamachi partecipe di una atmosfera fuori dal tempo, magica e irripetibile, aleggiante ancora oggi nella Tokyo super avveniristica.

Ma il quadro dei grandi maestri che hanno dominato la scena della seconda metà del Novecento non sarebbe completa senza Takahashi Mutsuo, autore di poesie ma anche di saggi, romanzi, testi teatrali, traduzioni e riscritture dei classici greci e latini di cui è appassionato studioso: un personaggio che alla libera e inesauribile vena creativa accosta una straordinaria erudizione.

Divenuto famoso come uno dei maggiori poeti che trattano apertamente di temi omoerotici, Takahashi è stato amico di alcuni fra gli intellettuali più controversi del periodo che include la svolta degli anni Settanta: tra questi, Mishima Yukio, nei confronti del quale Takahashi usa il rispettoso appellativo di «fratello maggiore» e al quale ha dedicato nel tempo numerosi saggi, raccolti oggi sotto il titolo di Mishima Yukio - Com’è stato, come avrei voluto che fosse (2016); è un’opera che si differenzia da quelle di altri autori apparse in anni precedenti, non solo per una sincera forma di affetto derivante dalla diretta e prolungata frequentazione con il famoso scrittore, ma anche perché, pur mettendone in luce le debolezze e l’artificiosità con cui Mishima aveva plasmato la propria esistenza, evita di cadere nei più banali e fuorvianti stereotipi che troppo spesso si affiancano a giudizi sulla vita e le opere dello scrittore. Takahashi Mutsuo, che molto spesso accompagna con un amabile sorriso considerazioni severissime sul mondo intellettuale e su coloro che ne fanno o ne hanno fatto parte (senza risparmiare neppure il nome sacro di Kawabata), è pronto ad aprire agli ospiti la porta della sua casa a Zushi, una cittadina non lontana da Kamakura e affacciata sul mare. È una casa a due piani circondata da un giardino, disseminata nel suo interno di libri di ogni genere e dimensioni, oltre che di una quantità inimmaginabile di oggetti d’antiquariato in prevalenza occidentali, tovaglie damascate, candelabri di cristallo, soprammobili di porcellana; una casa dall’atmosfera inafferrabile e preziosa, quasi un palcoscenico di teatro sapientemente disposto, ma anche leggermente inquietante che potrebbe benissimo identificarsi con quella stessa casa cantata in una delle poesie più recenti del poeta, dove personaggi “senza colore e sostanza si incrociano sulle scale”, spiriti di un mondo passato, la cui presenza e le cui parole si rivelano strumenti indispensabile alla creazione poetica.

Nella poesia giapponese della seconda metà del secolo scorso la ricerca estetica, la luminosità della parola, il fluire del verso hanno saputo fondersi anche con un messaggio politico, talvolta esplicito, più spesso suggerito o sottinteso. Così Ishimure Michiko, definita da qualcuno “la Rachel Carson giapponese”, si presenta come una delle più importanti voci che alla letteratura affiancano un ininterrotto impegno politico e sociale. Nelle sue poesie - che peraltro rappresentano solo una parte di una vastissima produzione - rivive una religiosità popolare, istintiva e animistica, ma sempre accompagnata da tracce sommesse della sua lunga battaglia perché venisse riconosciuta la responsabilità della industria chimica Chisso nel disastro di Minamata, uno dei peggiori disastri ambientali del secolo scorso. Un argomento, quello della “malattia di Minamata”, che è stato affrontato dalla scrittrice, con maggiore incisività e su scala molto più ampia, nel più famoso dei suoi romanzi, Kugai jōdo (Terra pura mare di sofferenza, 1969): qui i tragici, reali fatti di cronaca, la sofferenza delle comunità rurali, la loro lunga battaglia, la denuncia della distruzione dell’ambiente operata da un irresponsabile sfruttamento industriale, la complicità delle autorità nel nascondere o negare la verità si inseriscono in una cornice letteraria di straordinaria potenza narrativa. Le sue poesie alle quali il ricorso a forme dialettali aggiunge un ritmo particolare, si muovono in atmosfere rarefatte e oltremondane; ne fanno da contrappunto paesaggi apocalittici sui quali sembra aleggiare il presagio della devastazione provocata dall’uomo.

L’esordio poetico di Sasaki Mikirō è invece strettamente legato agli anni della lotta studentesca che trova ampio spazio nella sua prima raccolta, pubblicata nel 1970 e intitolata Shisha no muchi (La sferza dei morti). Ispirata al violento scontro fra la polizia e il gruppo dei dimostranti, in buona parte composto da esponenti dello Zengakuren, presso l’aeroporto di Haneda nell’ottobre del 1967, l’opera è dedicata alla memoria di Yamazaki Hiroaki, amico di Sasaki dai tempi del liceo, morto in quell’occasione in un incidente provocato dagli stessi dimostranti, secondo le fonti ufficiali: una tesi in seguito ampiamente contraddetta sulla base dei segni di percosse e colpi di manganello rilevati sul corpo del ragazzo. La connotazione politica che caratterizza le poesie di questa prima raccolta si sarebbe via via diluita con il mutare dei tempi e lo spegnersi della contestazione, anche se Sasaki avrebbe continuato a dare il suo contributo alla ricostruzione e alla documentazione dei fatti accaduti nel corso di quello che è stato chiamato «l’incidente Yamazaki», partecipando anche alla creazione nel 2014 di un Progetto Yamazaki Hiroaki. Nelle sue raccolte poetiche Sasaki, pur non abbandonando completamente i soggetti delle sue prime poesie - e ne sono una prova evidente i versi scritti nel 1983 e dedicati al carcere Toyotama, che sorgeva nel quartiere Nakano di Tokyo, dove nel corso degli anni Trenta erano stati imprigionati i più noti intellettuali dissidenti - avrebbe cercato ispirazione soprattutto nei numerosi viaggi che compie regolarmente e che lo portano in Nepal, nel Tibet, in Cina, sui passi dell’Himalaya. Se questi paesaggi diventano stimolo per una continua ricerca della possibilità di trovare parole della propria lingua che ne siano una proiezione fisica e tangibile, allo stesso tempo il continuo interesse per linguaggio poetico e per la musica si traduce nella reiterata presenza di strumenti musicali che diventano soggetto delle sue opere, oltre che complementi immancabili delle sue letture in pubblico.

Okinawa, con l’ineludibile problema delle sue peculiarità in termini di collocazione topografica, esperienze storiche, realtà sociali, convenzioni religiose e, non ultimi, dialetti (o lingue) che differiscono in modo più radicale rispetto a qualunque altro in Giappone, è il tema principale delle poesie di Yae Yōichirō.

Nato a Ishigaki, nell’estremo sud-ovest dell’arcipelago, ma trasferitosi a Tokyo dove è rimasto per trentotto anni e ha cominciato la sua attività di poeta, Yae ha fatto ritorno nella sua isola per riscoprirne il paesaggio, la storia, i valori della gente che ci vive, i miti e le leggende. Autore di poesie taglienti che lui stesso definisce benevolmente “di propaganda” e che condannano senza mezzi termini secoli di assoggettamento, sfruttamento e discriminazione da parte del “mainland” giapponese, Yae rivela nella quotidianità come anche nella maggior parte delle sue poesie un altro registro: una accorata serenità di fondo sembra infatti essere la sua marca poetica e nei suoi versi anche la morte, costantemente evocata insieme a immagini di distruzione, abbandono e desolazione, acquista una dimensione magico-religiosa. Se lo si raggiunge a Ishigaki, Yae è pronto ad illustrare agli ospiti i luoghi più belli dell’isola, dalla estrema punta a nord del capo di Hirakubo proteso sul mare, alla limpida baia di Kabira, la spiaggia di Shiraho, soffermandosi poi sulla presenza dei “boschi sacri” (on nel dialetto locale), piccoli santuari nascosti da una vegetazione spontanea e disordinata, protetti da un cartello che ne vieta l’ingresso a chi non sia venuto per pregare e dove riemerge il retaggio di vecchi culti popolari affidati alle sciamane – per secoli detentrici del potere religioso in Okinawa.

Un diverso tipo di impegno politico emerge invece nei tweets messi in rete da Wagō Ryōichi, minuto dopo minuto subito dopo il terremoto del 2011, passato alla cronaca come il Grande terremoto del Giappone orientale (Higashi Nihon daishinsai).

All’epoca già poeta affermato e vincitore di premi letterari, Wagō ha però inevitabilmente legato il suo nome alla raccolta Shi no tsubute (Ciottoli di poesia) pubblicata nel giugno dello stesso 2011, che contiene i suoi messaggi dal 16 marzo al 25 maggio. Rimasto nella città di Fukushima durante e dopo il disastro e sotto la temuta minaccia della radioattività, Wagō – come del resto era avvenuto prima di lui anche per altri scrittori decisi a lasciare una testimonianza dei momenti più drammatici nella storia del paese - registra le proprie emozioni attraverso il filtro della poesia, confidando nel “potere della parola” per “percorrere il futuro, scrivere la speranza e non rinunciare a Fukushima”.

Una precaria speranza emerge anche nella poesia Ashita (Domani) di Misumi Mizuki, nata nel 1981 e rappresentante delle generazioni che hanno dato il loro contributo alla poesia giapponese alla svolta del secolo. Ashita è una poesia lineare, dal ritmo quasi infantile, dove un ipotetico dialogo di una giovane coppia rispecchia una tranquilla esistenza che da un momento all’altro può essere distrutta da una catastrofe.

Anche in altre poesie di Misumi l’apparente semplicità del linguaggio che accompagna gesti e momenti di una quotidianità domestica (il bucato, la spesa al mercato, l’oscillare della metropolitana) si affianca alla rappresentazione di una serenità sempre minacciata dall’ombra della malattia e della morte. Misumi Mizuki, e con lei Akegata Misei e Fuzuki Yumi, si pongono come le dirette eredi di una corrente di poesia femminile emersa negli anni Settanta e Ottanta, che da quel momento sembra aver inaugurato un filone predominante in cui le voci maschili fanno fatica ad ottenere la stessa visibilità di quella delle loro colleghe donne. Interrogato sul fenomeno, un veterano tra i poeti presentati nell’antologia, Arakawa Yōji, con il suo usuale stile diretto ci risponde che ciò ha a che fare probabilmente con due fattori: il primo, il rinchiudersi del singolo (e della poesia) in un individualismo favorito dalla mancanza di frizioni e di contestazioni sociali (quanto meno diffuse); il secondo, la posizione della donna in seno a una società così infiacchita, almeno in superficie. La possibilità concessa all’esponente maschio di vivere in un ambiente rassicurante con la sola precauzione di seguire il percorso per lui già tracciato, continua Arakawa, lo sottrae a qualunque forma di dialogo e di coinvolgimento, privandolo di conseguenza anche dello stimolo al pensiero; la donna al contrario deve confrontarsi nella sua stessa quotidianità con una serie di handicap di partenza, dal sessismo alla discriminazione, ragioni che per contro la armano di una vena critica guizzante, sempre all’erta, e di uno sguardo indagatore sulle ragioni del mondo. Sono tali premesse, forse, a donare maggiore vigore anche alle opere apparse più di recente nel panorama poetico femminile.

Nella voce delle principali figure di questo panorama, da Itō Hiromi a Isaka Yōko, è dominante la spinta verso un diverso modo di porsi e di intendere la letteratura femminile, una maggiore libertà di linguaggio, un’esplorazione senza reticenze della psicologia e della fisiologia femminile, dove è sicuramente percepibile il debito, volontario o meno, contratto con i movimenti femministi attivi negli anni Settanta e Ottanta.

Se Itō, da più di vent’anni attiva tra Stati Uniti e Giappone, ha fatto di un linguaggio volutamente provocatorio e di un’energia traboccante nelle sue performance pubbliche un vero e proprio marchio di fabbrica, Isaka all’opposto ha sempre limitato le sue apparizioni centellinando anche la sua scrittura, affidando l’efficacia del suo messaggio alla percezione di un’energia che un’apparente attitudine dimessa riesce a malapena a nascondere. Sebbene in modo diverso, però, da entrambe emerge una stessa insofferenza di fronte alla disposizione del Giappone nei confronti del gender, una condizione che Itō, rievocando la propria storia personale, in un articolo dell’anno scorso apparso sull’Asahi Shinbun esemplifica così: “All’epoca era ovvio per chiunque che l’establishment letterario fosse a guida maschile, e probabilmente anche io venni accolta come un fenomeno curioso: pensa, una giovane donna che parla di sesso senza veli! Eppure dubito che fossi la sola a produrre opere del genere. La sessualità, la gravidanza, il parto, non sono temi che l’essere umano può permettersi di ignorare”.

Un caso particolare, nell’ambito della discriminazione, è rappresentato dall’unica poetessa zainichi (il termine che indica chi è residente - spesso nato - in Giappone ma di discendenza coreana) presente nell’antologia, Park Kyongmi.

Da sempre oggetto di discriminazione a vari livelli, la popolazione zainichi è riuscita dalla seconda metà degli anni Sessanta in poi a ritagliarsi un suo importante spazio (anche di protesta) all’interno dell’establishment sia letterario che accademico. Park però preferisce concentrare la sua attenzione su un altro problema, e cioè di come riappropriarsi delle proprie radici culturali anche se si è cresciuti e assimilati a un ambiente che – letteralmente – parla un’altra lingua. Park espande così gli ambiti della sua ricerca alla musica e alla danza tradizionale coreana, al cinema (da cui trae molte delle sue tecniche compositive), ai tragici episodi della storia recente del suo paese di origine, e quando ci accoglie nella casa che condivide con il marito, lo scultore e critico d’arte Okazaki Kenjirō, una poliedrica struttura quasi escheriana di legno mattoni e travi d’acciaio assemblata con l’aiuto degli studenti di Okazaki, ci sembra di intravedere in quegli spazi la stessa poliedricità dei suoi interessi.

Le generazioni più giovani esprimono un disagio esistenziale che si traduce in inquietanti immagini di una fisicità fatta di odori sgradevoli, decomposizione e deterioramento di cose e di sentimenti, oppure ricordi di un’adolescenza irrequieta, di un isolamento sociale e difficoltà di rapportarsi con il prossimo. Fuzuki Yumi, che abbiamo incontrato riconoscendo nell’estrema precisione dei dettagli nel vestire e nelle movenze controllate lo stesso rigore che emerge dalla composizione della sua scrittura, è colei che forse ha più di ogni altro esplicitato tale difficoltà.

I riconoscimenti ottenuti molto presto (il principale premio per esordienti giunge prima che abbia terminato il liceo), ne hanno fatto un caso appetitoso per i media, rendendo però sempre più difficoltoso perseguire quello che Fuzuki ritiene essere il compito di un poeta: “trasformare in linguaggio la propria interiorità attraverso la scrittura poetica, e trasmetterla a chi ha percezioni differenti”. Di uno stesso disagio, legato anche in questo caso alla giovane età, alla situazione di incertezza per il futuro, elemento questo che in Giappone come altrove sembra serpeggiare fra le nuove generazioni, è partecipe Akegata Misei. Ma se alcune sue poesie sono specchio della propria inquietudine di fronte al proprio futuro, nel momento di affrontare il passaggio dalla condizione di studente a quella di parte attiva della società, altrove procedono in una linguaggio rarefatto come i paesaggi che descrive, nell’irrazionalità dei segni diacritici e nel fluire di immagini della natura allineate come fotogrammi: in questo modo forse riallacciandosi, inconsapevolmente, al manifesto della nuova poesia in lingua colloquiale, quando nel 1897 Kunikida Doppo, giornalista, editore, romanziere ma anche uno dei primi sperimentatori di una poesia che iniziava a slegarsi dalla metrica tradizionale, scriveva: “La libertà dimora nei boschi montani / diamo voce a questi nostri versi per sentire il sangue rifluire vitale”.

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