Scorci di Kyōto
Tre opere inedite di Hōen nella collezione del Museo d'Arte Orientale di Venezia

Scritto da Francesca Storti -

Il fulcro della ricca e pregiata collezione del Museo d’Arte Orientale di Venezia fu costituito circa centotrenta anni fa, durante il viaggio intorno al mondo intrapreso dal principe Enrico Carlo Luigi Giorgio di Borbone-Parma, conte di Bardi (Parma, 1851 – Mentone, 1905) tra il 16 settembre 1887 e il 15 dicembre 1889. Appena giunta in Europa, la collezione Borbone vantava circa 30˙000 pezzi di cui due terzi acquistati in Giappone, prova evidente di quanto il principe e la moglie Adelgonda di Braganza (1858–1946) fossero rimasti entrambi affascinati da quel Paese. A seguito di varie vicissitudini, una volta divenuta proprietà dello Stato italiano, la raccolta contava nel 1926 poco meno di 17˙400 oggetti, una quantità comunque troppo grande perché fosse possibile un’esposizione integrale nelle stanze al terzo piano di Ca’ Pesaro, tuttora sede del Museo.

Fra le tante pregevoli opere d’arte ancora mai mostrate al pubblico figura anche un gruppo di tre dipinti giapponesi del XIX secolo firmati "Hōen" e accomunati dallo stesso aspetto alquanto inusuale. Essi sono infatti composti da un supporto secondario costituito di vari elementi, al centro del quale è incollata una tela di seta dipinta ad inchiostro e colori. Ciascuno di essi raffigura uno scorcio diverso di Kyōto, come suggeriscono le didascalie che precedono la firma, rispettivamente: Saikyō Takao (n. inv. 766/12441), Saikyō Chion’in (n. inv. 767/12439) e Saikyō Tsūtenkyō (n. inv. 768/12438), tre luoghi nel distretto di Higashiyama. Il termine saikyō 西京 (letteralmente “capitale dell’ovest”, utilizzato di certo in contrapposizione a tōkyō 東京, “capitale dell’est”) non era altro che un sinonimo di Heiankyō, l’attuale Kyōto.

A rendere l’aspetto di tali opere inusuale è il supporto secondario. Ciascun dipinto è infatti applicato a un telaio (molto probabilmente di legno) rivestito di carta dorata sul recto e blu sul verso, racchiuso all’interno di una semplice cornice lignea ad esso fissata tramite dieci chiodi adornati da borchie dorate a forma di fiore di ciliegio (due per ogni lato corto, tre per ognuno dei lunghi). A completamento del tutto, un gancio fissato sul verso, a metà del lato superiore del telaio, con una fettuccia per poter appendere l’opera. Si tratta senz’altro di un supporto assai inconsueto, considerando che nella tradizione artistica giapponese del periodo Edo (1603-1868) le opere pittoriche assumevano principalmente le forme di emakimono e kakemono, o di byōbu e fusuma.

Per quanto riguarda la carta dipinta con pigmento dorato, le sue fibre sembrano essere troppo lunghe e ben conservate perché possa trattarsi di un materiale prodotto nel secolo XIX in Europa. Le cornici in legno verniciato al contrario potrebbero essere state create e montate altrove in un secondo momento. Non vi sono infatti elementi che permettano di dar loro una provenienza sicura, mentre i primi documenti relativi alla collezione Borbone rendono abbastanza chiaro che le graziose borchie in argento dorato, sebbene acquistate in Giappone, siano state aggiunte soltanto dopo l’arrivo in Italia.

Non sarebbe inverosimile immaginare che un giorno Enrico di Borbone e Adelgonda durante una delle tante passeggiate, magari proprio per le vie di Kyōto, possano essersi imbattuti in questi piccoli splendidi dipinti e, rimasti affascinati, abbiano deciso di acquistarli in gruppo facendosi costruire per ciascuno un supporto che li valorizzasse e che ne permettesse al tempo stesso l’affissione, come una sorta di kakemono. Da qui il telaio ricoperto di carta colorata con la fettuccia posta sul verso e, forse, già la cornice in legno. Una volta ritornati in Italia, fecero poi impreziosire ciascuna opera con l’aggiunta delle borchie dorate a forma di fiore di ciliegio. L’intento fu probabilmente quello di dare ad ognuna delle opere quasi l’aspetto di un quadro con passepartout: un formato senz’altro più familiare al pubblico europeo, sebbene con una nota di esotismo di certo altrettanto gradita.

Forse a suggerire a Enrico di Borbone (o a chi per lui) una tale singolare soluzione (una sorta di addomesticamento dell’arte giapponese, tradotto nella riduzione a forme che risultassero più familiari all’osservatore occidentale) furono i dipinti stessi, ovvero i soggetti ritratti unitamente alla tecnica di realizzazione.

E’ evidente infatti che si tratta di pittura paesaggistica, in uno stile figurativo che sebbene realizzato da un artista giapponese ricorda l’estetica del naturalismo e dell’en plein air europei.

Pur nell’essenzialità e nella minuzia cui una superficie tanto ridotta costringe (la tela di seta è infatti un rettangolo quasi equilatero di circa 21 x 22 cm), Hōen è riuscito perfettamente a rendere ogni elemento padroneggiando al meglio i suoi strumenti. La scelta azzeccata dei colori e la tecnica di pennellata di volta in volta diversa suggeriscono immediatamente i vari elementi e soprattutto i tipi di vegetazione raffigurati. In particolare, si distingue chiaramente il manto fogliare dell’acero, di un verde brillante nel paesaggio Saikyō Tsūtenkyō (n. inv. 768/12438), mentre nei toni del rosso, dell’arancio e del marrone nella raffigurazione di Saikyō Takao (n. inv. 766/12441). In Saikyō Chion’in (n. inv. 767/12439) si riconoscono invece i pini scuri che incorniciano il mon proseguendo poi fitti dietro di esso sullo sfondo, in contrapposizione col bianco degli alberi in fiore (forse dei pruni). Il resto della vegetazione, vediamo, è reso con piccole macchie di colore, straordinariamente efficaci pur nella loro semplicità. Completano la scena in ciascun dipinto alcuni elementi architettonici e figure umane in kimono (in abiti monastici nel caso di Saikyō Tsūtenkyō). Un altro aspetto da non sottovalutare poi è la sapiente diluizione dei colori, che ha permesso all’artista di creare un’illusione di profondità: utilizzando i pigmenti più diluiti infatti, soprattutto nel dipingere gli elementi sullo sfondo, è riuscito a dare l’idea del paesaggio più rarefatto in lontananza di cui man mano non si distinguono più forme e colori. Nel complesso si può apprezzare una grande maestria in queste opere paesaggistiche di Hōen: uno stile figurativo ed una resa della prospettiva che collocherebbero questi piccoli gioielli nelle produzioni della scuola pittorica Maruyama-Shijō, attiva dal tardo Edo fino agli inizi del periodo Meiji (1868-1912). In particolare si nota come la rappresentazione della natura da sola permetta di dare una collocazione temporale ai luoghi riprodotti. Tre dipinti e tre stagioni ben distinte. Quella mancante era forse ritratta nel quarto dipinto firmato Hōen registrato assieme a questi all’interno dei documenti di inizio Novecento e andato purtroppo venduto prima che la collezione Borbone divenisse proprietà dello Stato italiano.

Su ciascuna tela, l’opera pittorica è accompagnata da un’iscrizione in tategaki: la prima colonna (quella di destra) è come già accennato l’indicazione del luogo rappresentato. Seguono poi a sinistra la firma dell’artista Hōen 芳園 e un sigillo hanko rosso in negativo.

Indagando sul nome Hōen, sembra che nel secolo XIX siano stati attivi ben tre artisti che si firmarono con questo pseudonimo: il più noto tra tutti fu Nishiyama Seishō 西山成章 (ricordato appunto come Nishiyama Hōen, 1804-1867). Consultando infatti più dizionari dei nomi di artisti giapponesi, “Hōen” compare sempre in rimando a quest’ultimo.

In Giappone, nella seconda metà del periodo Edo, non appena fu concessa la circolazione dei libri occidentali, l’arte giapponese (in particolare quella pittorica) ricevette molti nuovi stimoli, e le tecniche razionali dell’arte europea vennero gradualmente assorbite e rielaborate. Queste nuove influenze diedero vita a correnti artistiche varie, tra cui quella inaugurata a Kyōto da Maruyama Ōkyo (1733-1795), che trae direttamente ispirazione dalla natura circostante. Nello specifico, questo pittore divenne maestro nella fusione delle forme tradizionali giapponesi con la tecnica di ombreggiatura e i principi occidentali della prospettiva, creando una nuova tipologia molto apprezzata di dipinti paesaggistici realistici denominati megane-e. Ōkyo diede così vita alla scuola Maruyama, da cui si sviluppò a sua volta la scuola Shijō, che dominò il panorama artistico nella regione del Kansai dal tardo Edo fino agli inizi del periodo Meiji (1868-1912). Quest’ultima, fondata da Matsumura Goshun (1752-1811), aggiungeva ai canoni stilistici di Ōkyo elementi della scuola Nanga (Bunjinga), un’altra delle nuove correnti nate dalle influenze europee; essa si distinse dalla scuola da cui derivava per un approccio più delicato nei confronti del kachōga (raffigurazioni di fiori ed uccelli) e delle rappresentazioni paesaggistiche. Tra i pittori della scuola Shijō che vengono ancora ricordati, figura anche Nishiyama Hōen, discepolo di Matsumura Keibun (1779-1843), fratello minore di Goshun.

Gli altri due autori che condivisero con Nishiyama Hōen lo stesso pseudonimo furono rispettivamente Kagawa Hōen 香川芳園e Hōen Taira Yoshiteru芳園平吉輝, attivi entrambi nella seconda metà del XIX secolo e di cui si sa pochissimo. Operando un confronto tra gli hanko utilizzati da questi autori in dipinti di sicura attribuzione e quello che figura sulle tre opere del Museo d’Arte Orientale di Venezia, non è stata trovata alcuna corrispondenza. Non è però da escludere che si possa trattare di un sigillo effettivamente appartenuto ad uno dei tre Hōen, dal momento che spesso gli artisti giapponesi utilizzavano diversi hanko personalizzati lungo l’arco della propria carriera. Per quanto riguarda la firma invece, la grafia nei caratteri di “Hōen” in opere attribuite a Nishiyama Hōen è nettamente diversa da quella che accompagna i tre piccoli paesaggi. Al contrario, è sconvolgente la somiglianza con entrambe le firme di Kagawa Hōen o Hōen Taira Yoshiteru, motivo che rende un’attribuzione sicura ad oggi impossibile.

Vi è ancora margine di miglioramento, nello studio di questi graziosissimi e speciali “quadri” di Kyōto custoditi nel deposito del Museo d’Arte Orientale di Venezia; la speranza è di poterli un giorno ammirare tutti insieme, appesi uno di fianco all’altro.


Questo articolo è stato tratto da “Alcune opere inedite di Hōen nella collezione del Museo d'Arte Orientale di Venezia: proposta di analisi”, tesi di laurea magistrale di Francesca Storti, Ca' Foscari (Venezia), 2018/ 2019, relatrice: Prof.ssa Silvia Vesco; correlatrice: Dott.ssa Marta Boscolo Marchi.


Bibliografia

ANON, A pictorial encyclopedia of the oriental arts. 4: The late Edo period-the post-war period, (1716-1968), New York, Crown Publishers, 1969.

MASON, Penelope, History of Japanese Art, New York, Harry N. Abrams, 1993.

ROBERTS, Laurance P., A Dictionary of Japanese Artists: Painting, Sculpture, Ceramics, Prints, Lacquer, Tōkyō, Weatherhill, 1976.

Society of Friends of Eastern Art, Index of Japanese Painters, Tōkyō, Charles E. Tuttle Company, 1941.

SPADAVECCHIA ALIFFI, Fiorella, Museo d'Arte Orientale - La collezione Bardi: da raccolta privata a museo dello Stato, “Quaderni della Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Venezia”, n. 16, Venezia, s.n., 1990.

TAZAWA, Yutaka, Biographical Dictionary of Japanese Art, Tokyo, International Society for Educational Information, 1981.

Questo sito non utilizza tecniche per la profilazione, solo cookies tecnici o di terze parti.
Per maggiori dettagli consultate la Privacy Policy.