Il fenomeno basara
Forza e fascino dell’eccesso

Scritto da Rossella Marangoni www.rossellamarangoni.it -

Nel 1991 un taiga drama della NHK sul Taiheiki riportava in auge il mondo basara. Dopo un lungo periodo di oblio durato cinque secoli, il termine basara riapparve, fu ripreso dalla pubblicità e dal marketing, diventò il nome di un profumo maschile di Shiseido (Basala, in realtà), ed entrò con prepotenza nell’industria della moda con una nuova connotazione di dandysmo che non gli era mai appartenuta.

Perché il termine basara, evocatore di comportamenti trasgressivi, ha origine nel XIV secolo e a quella temperie storica è strettamente connesso.

Alla fine del periodo Kamakura, in seguito ai tentativi di invasione dei Mongoli, la classe guerriera era in preda allo scontento causato da una mobilitazione e da un impegno in battaglia a cui, in mancanza di un bottino da suddividere fra i vassalli dello shogunato, non aveva fatto seguito una giusta ricompensa. Lo scontento crescente dei guerrieri era accompagnato dal cambiamento nei valori sociali dell’élite e da un sovvertimento negli assetti dei clan che sarà via via più evidente dopo il crollo del bakufu di Kamakura, il tentativo di restaurazione imperiale per opera di Godaigo (restaurazione Kenmu, 1333-1336) e lo scoppio delle guerre civili fra la Corte del Nord e quella del Sud (periodo Nanbokuchō, 1333-1392). Queste guerre segnarono una nuova tappa nell’ascesa della classe guerriera e portarono alla creazione dello shogunato Ashikaga a Kyōto. In un’epoca caotica in cui si facevano e disfacevano alleanze, si ribaltavano posizioni (la carriera di Ashikaga Takauji, 1305-1358, in questo senso è esemplare) e si contestava apertamente l’autorità imperiale, si fece largo un nuovo modo di esprimere questa volontà di sfida: nasceva la moda di una nuova ostentazione e una anticonvenzionalità non strutturata, spontanea, ma che fu intesa ben presto dalle autorità come un’aberrazione che andava repressa e proibita. Questo nuovo modo di essere, fatto di comportamenti eccessivi e trasgressivi e esteriorizzato attraverso un abbigliamento eccentrico, bizzarro e sfarzoso venne ben presto definito basara.

Come osserva Pierre-François Souyri: “Fra questi soprassalti di violenza, la vita nella quotidianità continua ma i modi di pensare, di vestire, di divertirsi cambiano velocemente. A poco a poco emergono altri valori che sconvolgono coloro che restano attaccati al passato: provengono da gruppi marginali, ex briganti ormai ben sistemati, monaci erranti illuminati, guerrieri arricchiti dalla guerra e dall’usurpazione di terre, saltimbanchi, artisti, musicisti che percorrono il paese fra fiere e locande, donne di piacere e danzatrici, hinin (ossia paria, considerati non umani), ma anche grandi signori che si incanagliscono, mercanti e artigiani alla ricerca di distrazioni di nuovo genere. Tutte queste persone provenienti dagli ambienti più diversi fanno parlare di sé: ignorano la moderazione, apprezzano con ostentazione le novità. Nei testi medievali li si definisce ‘gente strana’ (irui), ‘egoisti’ (jiyū nel giapponese medievale), ‘violenti’ (rōzeki), ‘stravaganti’ (igyō), in una parola: basara”.1

Ma qual è il significato di basara?

L’etimologia è ancora oggetto di dibattito fra gli studiosi ma l’interpretazione più accreditata predilige la derivazione dal sanscrito vajra, il diamante, la folgore, connotazione del veicolo tantrico del buddhismo che designa tutto ciò che è incrollabilmente duro come il diamante, ciò che non può essere intaccato.2

Alcuni studiosi stanno anche prendendo in considerazione una possibile derivazione da basa, termine che indica il movimento fluido e svolazzante delle vesti dei danzatori dengaku.3

Molto probabilmente agli inizi del XIV sec. il termine basara non aveva ancora acquisito quella connotazione di “sfarzosa ostentazione” che nei decenni successivi lo avrebbe caratterizzato, anche ad opera di alcuni personaggi eccentrici, signori feudali definiti, appunto, dagli storici, “basara daimyō”,4 ma compare per la prima volta come riferimento a un oggetto di lusso nel Nijō kawara no rakusho (Graffiti della riva del Secondo viale) (testo riportato nell'immagine sotto), una satira pungente dell’atmosfera nella capitale all’indomani della vittoria provvisoria dell’imperatore Godaigo. Il testo anonimo, comparso improvvisamente nel 1334 su un pannello lungo il greto del fiume Kamo, riporta infatti l’espressione “armatura a 5 stecche del ventaglio basara”. Il “ventaglio basara” era un ventaglio dai lussureggianti e vistosi motivi colorati molto apprezzato durante il periodo delle guerre civili.

Estratto dal Nijō kawara rakusho
(Graffiti della riva del Secondo viale, 1334):

In questi tempi nella Capitale
fra le cose in voga:
le aggressioni notturne,
i furti a mano armata,
le fanciulle facili,
le galoppate in piena città,
il panico senza ragione,
le teste mozzate,
i monaci che si spretano,
o i laici che si radono il capo…
… I parvenu che mettono il mondo alla rovescia…
…fanno gli orgogliosi,
con al guinzaglio
un animale patetico che ha l’aria vaga
di un falcone con una coda e delle piume
e che è incapace di catturare il più piccolo volatile,
con una sciabola lunga a penzoloni
più grande ancora che le spade più lunghe
che essi tengono con la punta all’aria trattenendola con il pollice,
con un ventaglio basara a cinque stecche,
dei palanchini troppo larghi,
dei cavalli pelle e ossa,
dei kimono a maniche sottili,
delle vecchie corazze affittate per la giornata…

Fonte:
Pierre-François Souyri, “Etre basara dans le Japon mediéval” in Cipango, 3 (novembre 1994), p. 163.

È in quegli anni che si inizia a parlare di abbigliamento basara, acconciature basara e poi, anche, firme e sigilli basara. L’artefice della rocambolesca fuga dell’imperatore Godaigo dall’esilio sull’isola di Oki, ad esempio, il guerriero dalle oscure origini Nawa Nagatoshi (?-1336), in quegli anni diventa celebre nella capitale per il suo modo bizzarro di indossare il copricapo eboshi di sghimbescio e di firmare i documenti con uno stile svolazzante subito qualificato come basara e immediatamente copiato.

A poco a poco s’impongono modi personali di comportamento e di abbigliamento, che ribaltano le convenzioni comuni. Fino ad allora l’aristocrazia di corte guerriera aveva prediletto un abbigliamento sobrio nei colori e nei disegni, mentre la servitù prediligeva colori brillanti e motivi vistosi. Ora, in breve tempo, alcuni fra i membri dell’élite guerriera adottano un abbigliamento vistoso e un atteggiamento provocatorio, interpretato da alcuni storici come un comportamento di aperta sfida ma anche il segno di una volontà di varcare i confini delle classi, almeno dal punto di vista estetico per affermare con più efficacia una volontà sovvertitrice. Utilizzano la ricchezza acquisita con le campagne vittoriose per ostentare un lusso magniloquente, comportamenti spregiudicati e pratiche stravaganti che spingeranno le autorità a cercare di porre un freno a sprechi e provocazioni.

Ne è testimonianza evidente il primo articolo del Kenmu shikimoku (Codice di era Kenmu, 1335), emanato da Ashigaka Takauji solo pochi giorni dopo aver cacciato definitivamente Godaigo dal potere, che così stabilisce:

“In tempi recenti alcuni che si definiscono basara amano esclusivamente la loro stravaganza, le loro sete damascate e i loro ricchi broccati, le loro spade d'argento finemente lavorate; i loro abiti eccentrici possono solo causare stupore. Non dobbiamo forse chiamare questo una follia estrema? I ricchi si inorgogliscono sempre più di questo stato, i poveri si vergognano di non essere in grado di adornare se stessi in tal modo. Non c'è decadenza più grande dei costumi; ciò deve essere severamente represso”.

Difficile però far rispettare questi inviti alla moderazione: come ricorda ancora Souyri, questo “stile basara” era l’affermazione di un nuovo individualismo e al tempo stesso esprimeva una volontà di sovvertimento dei valori, di superamento dei confini di genere e di classe. Si indossavano vesti di fogge inconcepibili fino a pochi anni prima. Gli uomini si pavoneggiano per le strade esibendo lunghe spade, la lama verso l’alto trattenuta dal pollice, a volte indossando pelli di volpe o di scimmia come sfida nei confronti del conformismo buddhista, le donne indossavano copricapi di paglia di foggia maschile (roppōgasa) e a volte addirittura delle maschere per non farsi riconoscere fra la folla. Trionfa la “follia” (monogurui) e questa follia pervade le strade della capitale, percorre le masse che accorrono sul greto del fiume Kamo e sui ponti che lo attraversano per assistere agli spettacoli di danze dengaku.

Figura esemplare di signore basara è Sasaki Dōyo (nato Takauji, 1306-1373), amico e sodale di Ashikaga Takauji (1305-1358) e da questi nominato governatore di Ōmi.

In lui lo spirito irriverente, e insofferente, nei confronti dell’autorità, imperiale o religiosa che fosse, i comportamenti spregiudicati, il gusto per il lusso e per l’eccesso, la larghezza nel dilapidare enormi somme di denaro per godere e far godere ai propri ospiti beni rari e preziosi importati dalla Cina, si sposavano a un’acuta sensibilità artistica, a rare doti di poeta e alla capacità di apprezzare e favorire la diffusione di arti raffinate quali la via dell’incenso, la via dei fiori, le arti del tè.

Fonte principale dello stile e delle pratiche basara di Sasaki Dōyo è il Taiheiki (Cronaca della Grande Pace), gunki monogatari di cui restano sconosciuti data di compilazione (forse attorno al 1370) e autori.

Lo stile eccessivo e ostentatorio e l’atteggiamento di perenne sfida del governatore militare (shugo) di Ōmi provocano nel 1340 uno scandalo senza precedenti, ci racconta il Taiheiki nel capitolo XXI.

Reduci da una battuta di caccia con il falcone, gli uomini di Dōyo, nelle loro eccentriche e vistose tenute basara, passano a cavallo davanti al Myōhōin, un tempio della scuola Tendai situato nei dintorni della capitale e di cui l’abate è un monzeki, ossia di sangue imperiale (in effetti è il giovane fratello dell’imperatore) e, incrociato il palanchino con il quale il superiore del tempio è giunto per ammirare le chiome rosseggianti degli aceri d’autunno, non resistono alla tentazione di sbeffeggiarlo e, penetrando nel giardino, ne distruggono gli arbusti urlando motti irriverenti. I monaci rispondono a colpi di pietra e riescono a cacciare gli intrusi ma la rappresaglia non tarderà ad arrivare. Saputo dell’incidente, Sasaki Dōyo si lancia con 300 dei propri vassalli in una spedizione punitiva che metterà a ferro e a fuoco il Myōhōin mentre i figlio di Dōyo, Hidetsuna arriverà a minacciare fisicamente il superiore dopo averne scoperto il nascondiglio.

L’episodio nasconde alle sue origini il conflitto che oppone il governatore di Ōmi ai monaci tendai del monte Hiei per il controllo del traffico (e la connessa esazione delle tasse) sulle vie di comunicazione che attraversano quella ricca provincia. Una disputa, dunque, fra i detentori di antichi privilegi e una nuova aristocrazia guerriera che li minaccia da vicino, irriverente e irrispettosa.

Punire Dōyo con la pena di morte, come richiesto dai monaci, per lo shōgun Ashikaga Takauji, legato all’amico da un antico sodalizio, è impossibile; lo condanna perciò all’esilio in una provincia dell’est. Ma la partenza per l’esilio diventa ancora una volta per Dōyo e i suoi uomini pretesto per una sfilata in cui il gusto per l’ostentazione e l’eccesso raggiunge il parossismo: l’abbigliamento bizzarro è questa volta completato con pelli di scimmia appese alla cintura, ennesimo sberleffo (insulto) al monastero del monte Hiei che aveva la scimmia come animale sacro. E a ogni sosta del corteo, fiumi di sake vengono versati trasformando la via dell’esilio in una marcia trionfale, ebbra e ridanciana, cui assiste tutta la città.

“Con il pretesto di accompagnare la sua partenza in esilio, più di trecento giovani guerrieri cavalcavano davanti e dietro di lui. Tutti senza eccezione avevano coperto con una pelle di scimmia la loro faretra, indossavano una pelle di scimmia ai fianchi e tenevano in mano una gabbia con un usignolo; lungo il percorso organizzarono in luoghi diversi banchetti con sake e cibarie e di locanda in locanda si intrattenevano con le cortigiane. Era uno spettacolo magnifico che non aveva nulla a che fare con il solito ritmo dei cortei in partenza per l’esilio. Si comportavano così per mostrare che disprezzavano le misure prese dalla corte e che si prendevano gioco della rabbia cupa dei monaci”.5

Ben presto perdonato, Sasaki Dōyo torna ad essere il capofila dei grandi signori della capitale che “si vestivano di broccato e di nutrivano degli otto tipi di cibi più rari”, “costituivano dei gruppi e a cominciare dalle riunioni del tè organizzavano degli incontri tutti i giorni” dandosi a tutti i piaceri e a tutti i divertimenti, come afferma il Taiheiki. Il suo raffinato senso estetico, il suo talento poetico e la pratica delle arti che si andavano sviluppando in quell’epoca insieme al suo gusto per il lusso in tutte le sue manifestazioni possono essere visti come i lati diversi di una medaglia: la sua è una personalità composita e ricca di sfumature, ed è per questo che fra i vari basara daimyō è considerato figura di grande interesse anche dal punto di vista della storia delle arti giapponesi e, in particolare, della poesia giapponese. Dōyo, è da ricordare, è uno degli autori di spicco presenti nella prima antologia di renga realizzata, lo Tsukubashū (Antologia di Tsukuba, 1356-1357), a cui fu poi riconosciuto, sembra per opera sua, lo statuto di “quasi-imperiale”.6

Il gusto di Dōyo per l’eccesso e il lusso (sempre pericolosamente in bilico fra raffinatezza e quello che oggi definiremmo kitsch) si esprime al meglio nei banchetti e nelle riunioni informali (yoriai) che organizza, e durante le quali gare di apprezzamento dell’incenso e di riconoscimento dei tè mettono in palio premi favolosi. Ricorda Satō: “Nei luoghi di queste gare erano ammassate grandi quantità di prodotti di lusso, tessuti tinti delle province del nord, quantità di vesti a maniche strette, diverse essenze di legni profumati, muschio, pepite d’oro, lame dal fodero in pelle di squalo, spade dall’impugnatura e dal fodero ricoperti in foglia d’oro e si dice che il valore di questi premi ammontasse a diverse decine di migliaia di kan. Questi premi erano suddivisi fra tutti i partecipanti: grandi personaggi in ritiro dal mondo, monaci della scuola Ji, danzatori di dengaku, cortigiane”.7

Ma non erano proprio questi i divertimenti e banchetti di gruppo proibiti dal Kenmu shikimoku? Il secondo articolo del codice, infatti, prescriveva: “È proibito bere e divertirsi in gruppo. Gli atti designati qui sono tutti particolarmente proibiti così come l’abbandonarsi ai piaceri della carne con le donne, alla pratica dei giochi d’azzardo come pure tutto ciò che passa sotto il nome di riunioni del tè o di riunioni poetiche che sono occasione di scommesse di somme astronomiche il cui ammontare è difficilmente valutabile”.8

Nel termine basara, dunque, confluiscono in egual misura politica ed estetica, istanze sovvertitrici dell’ordine costituito e gioco trasgressivo legato a nuovi gusti in campo artistico e alla nascita di arti nuove che costituiranno, nei secoli a venire, il corpus delle arti giapponesi tradizionali (arti del tè, ikebana, poesia a catena renga, danze e performance dengaku e teatro ). Queste arti, e il renga in particolare, praticate negli ambienti più vari e non solo in quelli aristocratici e che vedono la libera partecipazione di guerrieri di alto rango a fianco di monaci itineranti,9 di attori e intrattenitori, cortigiane, danzatori, nascono dall’incontro fra individui marginalizzati e una nuova élite ansiosa di ribaltare gli assetti politici fino ad allora in vigore. Si fa largo una collaborazione inedita che avrebbe portato alla nascita di una società fondata su nuovi valori e a questa nascita il fenomeno basara aveva portato un fruttuoso contributo.


Note

1. P.F Souyri, “Etre basara dans le Japon mediéval” in Cipango, 3 (novembre 1994), p. 162.↩︎

2. Nel Buddhismo il vajra, ossia il diamante, è simbolo di ciò che non si può distruggere. Evoca l’indistruttibilità e l’immutabilità del Risveglio che nessuna forma di attaccamento può scalfire. ↩︎

3. R.D. Henderson, What We Talk About When We Talk About Basara, University of Washington, 2017, p. 10.↩︎

4. Come Toki Yoritō (?-1343), Kō no Moronao (?-1351), Sasaki Dōyo (1306-1373).↩︎

5. Taiheiki, libro XXI, citato in Satō Kazuhiko, ‘Des gens étranges à l'allure insolite’ in Annales. Histoire, Sciences Sociales, 50ᵉ année, n. 2, 1995, p. 334.↩︎

6. Si veda: L. Selden (ed.), Renga by Sasaki Dōyo: Selected from the Tsukubashū, in The Asia-Pacific Journal, Vol. 14, Issue 14, n. 6, (Jul 15, 2016).↩︎

7. Satō Kazuhiko, ‘Des gens étranges à l'allure insolite’, in Annales. Histoire, Sciences Sociales, 50ᵉ année, n. 2, 1995, p. 336.↩︎

8. Ibidem.↩︎

9. I monaci della scuola buddhista devozionale Ji, fondata da Ippen (1234–1289), erano considerati compagni prediletti ai banchetti.↩︎


Bibliografia

Henderson, Ross D., What We Talk About When We Talk About Basara, University of Washington, 2017.

Jensen, Marius, Cambridge History of Japan, vol. V, Cambridge, Cambridge University Press, 1989.

Kumakura Isao, “Reexamining Tea: "Yuisho", "Suki", "Yatsushi", and “Furumai"" in Monumenta Nipponica, Vol. 57, No. 1 (Spring, 2002), pp. 1-42.

Satō Kazuhiko, “‘Des gens étranges à l'allure insolite’. Contestation et valeurs nouvelles dans le Japon médiéval”. In: Annales. Histoire, Sciences Sociales. 50ᵉ année, N. 2, 1995. pp. 307-340.

Selden, Lili (ed.), Renga by Sasaki Dōyo: Selected from the Tsukubashū (Tsukuba Anthology). Translated and annotated by Kyoko Selden, in The Asia-Pacific Journal, Vol. 14, Issue 14, n° 6, (Jul 15, 2016), consultabile al link: https://apjjf.org/2016/14/Selden-3.html

Souyri, Pierre-François, “Etre basara dans le Japon mediéval” in Cipango, 3 (novembre 1994), pp. 159-170.

Souyri, Pierre-François, Histoire du Japon médiéval. Le monde á l’envers, Paris, Perrin, 2013.

Souyri, Pierre-François, Samouraï. 1 000 ans d’histoire du Japon, Rennes/Nantes, PUR/Éd. Château des ducs de Bretagne, 2014.

Varley, Paul, Kumakura Isao (eds), Tea in Japan: Essays on the History of Chanoyu, Honolulu, University of Hawai’i Press, 1989.

Varley, Paul, Warriors of Japan As Portrayed in the War Tales, Honolulu, Hawai’i University Press, 1994.

Paul Varley, Japanese Culture, Honolulu, Hawai’i University Press, 2000.

Questo sito non utilizza tecniche per la profilazione, solo cookies tecnici o di terze parti.
Per maggiori dettagli consultate la Privacy Policy.