Lo Shintō, la donna, la miko

Scritto da Cecilia Presciani -

Il ruolo della donna nel culto religioso più antico del Giappone, lo Shintō (神道 ), è sempre stato oggetto di dibattiti e controversie. Una tradizione autoctona che, considerando la femminilità come qualcosa di negativo, portatrice di impurità (穢れ kegare) ha relegato la donna ai margini della società, permettendole, all’interno delle sue cerimonie, soltanto un ruolo di spettatrice.

Dati questi presupposti potremmo pensare che nello Shintō quella della donna sia sempre stata una posizione di sottomissione, senza aver mai avuto ruoli decisivi e rilevanti, in un contesto totalmente maschile.

Ma è realmente così? Esistono delle particolarità nella storia, delle eccezioni in cui queste regole vengono capovolte?

Andando ad indagare più a fondo, soprattutto nelle fasi più arcaiche di questo culto antico quanto il Giappone, si scopre che non è così.

Questo argomento mi appassiona da sempre e nel periodo che va da febbraio ad aprile 2019 sono stata in Giappone per approfondire sul campo, cercando di avere contatti con le miko di diversi santuari tra la prefettura di Ibaraki, nella zona di Tokyo, Kamakura e Kyoto. Di questa cosa parlerò più avanti.

Se prendiamo in esame testi fondativi dello Shintō come il Kojiki (712 d. C.), si troveranno moltissimi casi in cui il ruolo femminile viene esaltato, messo sullo stesso piano di quello maschile. Nel momento della creazione dell’arcipelago giapponese, per esempio, nato dal ventre della divina Izanami solo grazie al suo travaglio; o in altri momenti, come possiamo leggere nella prefazione all’opera di Paolo Villani:

“Nel Kojiki la donna, anche laddove appare discriminata, è protagonista […]. Tracce di una società matrilineare si trovano nel diritto della madre di dare il nome ai figli, esplicitato nelle parole del sovrano Isachi alla sposa, la sorella Saho […]. La regina Okinagatarashi impersona al meglio il ruolo dominante della donna, venato di una sacralità possente”.

Quindi sì, da un lato portatrice di impurità, di kegare, ma anche di una fortissima sacralità che non può essere nascosta o messa da parte se si vuole cogliere a pieno le peculiarità di una religione antica e profonda come lo Shintō.

Ma la sacralità femminile di cui parla Villani la si può associare solo ai tempi più antichi dello Shintō, o la possiamo rintracciare anche in altri momenti della storia giapponese?

Sicuramente vi è una figura nella storia religiosa nipponica che sembra aver preso le sembianze e le caratteristiche di questa sacralità: la miko (巫女), colei che meglio rappresenta l’immagine religiosa femminile e che, pur nelle mille trasformazioni subite nel corso dei secoli, può descrivere il legame tra la donna e lo Shintoismo.

Vergine del santuario, medium, giovane sciamana, vari sono gli aspetti attribuiti a questa sacerdotessa, una donna dotata di poteri sovrannaturali, in grado di parlare con i kami (神), gli spiriti e i defunti.

La sua forza stava nel forte legame che la univa ai kami, tanto che in alcune zone rurali del Giappone la stessa miko veniva chiamata in antichità kami, a testimonianza di come riuscisse, tramite le trance e visioni, a rappresentare il punto di unione tra i due mondi, quello degli umani e quello del divino.

Era anch’essa una miko, se non la prima vera miko, Ame no Uzume, la dea che grazie alla propria danza, riuscì a far uscire la divina Amaterasu dalla caverna nella quale si era rinchiusa dopo aver avuto una lite con il fratello Susanoo e far quindi tornare la luce e la tranquillità; il cosiddetto “episodio dell'apertura della caverna” (岩戸開き, iwato biraki), che viene narrato nel Kojiki.

Dalle origini al periodo Heian (794-1185) la miko godè del rispetto e dell’approvazione della società in cui viveva. Per renderci conto dell’importanza che le parole delle miko potevano avere, basti citare come nel X secolo lo statista Fujiwara no Kaneie (929-990) non prendesse una decisione senza prima aver consultato un oracolo della sciamana caduta in trance, operante nel tempio di Kamo a Kyotō. Non era il sacerdote del tempio, non l’uomo, ma lei ad essere posseduta dal dio e a profetizzarne le volontà. La miko diveniva figlia e al contempo sposa della divinità, la perfetta mediatrice fra mondo terreno e ultraterreno.

Abbiamo esempi di miko che svolgevano ruoli importanti anche al di fuori del tempio shintoista. In origine, infatti, il termine miko veniva utilizzato per descrivere non solo le vergini del tempio, ma anche sovrane nelle cui mani veniva unito il potere sacrale con quello temporale. Tra le più importanti possiamo ricordare la regina Jingu (169-269), spesso identificata con il nome di Himiko o di Okinagatarashi, la sovrana che unificò il Giappone del III secolo d.C, e la prima sovrana sciamana attestata nelle cronache storiche.

Donne, quindi, la cui sacralità nega qualsiasi visione per cui la femminilità può essere considerata come qualcosa di unicamente negativo per lo Shintoismo.

Sembra pertanto giusto ritenere che lo Shintō, soprattutto nei suoi albori e come testimoniato dai suoi testi antichi e fondativi, non abbia recluso la donna ad un ruolo del tutto marginale e negativo, bensì il contrario.

Ciò ovviamente non significa che il Giappone abbia mantenuto questa visione nel corso di tutta la sua storia.

Ma, quando si è avuto questo momento di passaggio, in cui si passò ad una società politica e religiosa quasi totalmente chiusa alle donne?

È probabile, ed è giusto pensare, che a partire dal periodo medievale (1185-1573), culti di tipo autoctono come quelli shintoisti vennero mano a mano sostituiti con forza da quelli buddhisti e confuciani, fortemente supportati dalla forza militare dello Shōgun (将軍 "comandante dell'esercito") che comandava nel Paese. In questo contesto i santuari, il luogo nel quale le miko vivevano e ricevevano sostentamento, entrarono in bancarotta e spesso venivano chiusi per carenze economiche. Le sacerdotesse, da ponte con il divino, si trovarono quindi a vivere nel ruolo di mendicanti, e non mancarono casi in cui queste si ridussero a prostituirsi per poter vivere. Molte sacerdotesse divennero aruki miko (歩き巫女 miko in viaggio), miko senza fissa dimora, che viaggiavano attraverso il Paese.

Da questo momento la forza maschile prese sempre più sopravvento, e anche nei santuari rimasti attivi molte delle funzioni che prima venivano svolte dalle miko venivano ora eseguite dai kannushi (神主 capo del santuario), sacerdoti ordinati dall’amministrazione imperiale e incaricati di gestire i santuari.

Le miko rimasero così, nel corso dei secoli, seppur con ruoli molto ridimensionati, l’ultimo messaggero religioso di una tradizione che non possiamo definire totalmente chiusa alle donne.

Ma oggi cosa ne è di questa figura che per secoli è stata così importante?

La miko è ancora oggi presente in Giappone, tanto che chiunque abbia visitato un santuario shintoista ne avrà sicuramente notata una, con il suo hakama (袴) rosso e la sua tunica bianca, l’haori (羽織), intenta a prendersi cura del luogo sacro. Le troviamo intente a pulire gli spazi esterni del tempio, fare da guida a chi visita il santuario e vendere gli oggetti relativi al culto shintoista come omikuji (おみくじ), biglietti contenenti predizioni divine, che vengono stampati e confezionati interamente da loro stesse, nel contesto dei lavori da svolgere al santuario, o gli omamori (お守り), amuleti porta fortuna dedicati a diverse sfere della vita come l’amore, la buona salute, l’amicizia, ma anche alla sicurezza stradale o alla fertilità di coppia.

Anche se in alcune occasioni la miko di oggi svolge ancora azioni che l’avvicinano alla figura di quella antica, come per esibizioni di danza kagura (神楽 ), o per l’arte di disporre i fiori nel santuario, kadō (華道), il suo ruolo ha subito profonde trasformazioni.

La miko del XXI secolo è passata ad essere una semplice commessa ed impiegata del santuario. Molte ragazze svolgono questo lavoro come un “lavoretto part-time”, un arubaito (アルバイト) come un altro. Nei giorni vicini al Capodanno infatti, quando molti giapponesi sono soliti recarsi nei luoghi di culto, è possibile trovare inserzioni di santuari che pubblicizzano la richiesta di miko part-time, anche su social network come Facebook, a testimonianza di come questa pratica abbia assunto oggi valenze del tutto differenti dal passato. Insomma, sembra che per molte giovani giapponesi trovare un lavoretto ad un konbini (コンビニ pubblico esercizio di dimensioni medio-piccole in cui viene effettuata la vendita al dettaglio di una larga gamma di prodotti) o come miko in un santuario shintoista non sia poi tanto diverso. Sono poche infatti quelle che continuano a fare questo lavoro fino ai trent’anni, termine entro il quale essere miko viene considerato ancora «fattibile» per una donna, per la quale, dopo quell’età, l’interesse maggiore dovrebbe essere rivolto a crearsi una famiglia o ottenere un lavoro più stabile, che le permetta di mantenersi autonomamente.

È giusto quindi chiedersi se queste ragazze conoscano o meno l’importanza che il ruolo che svolgono ha avuto in passato, di come esso rappresentasse per il genere femminile un’eccezione all’interno del culto shintoista, dove invece le donne non venivano considerate allo stesso modo.

Come dicevo all'inizio, ho svolto uno studio sul campo, chiedendo direttamente di parlare in generale della loro esperienza o tramite un questionario, con domande rivolte a miko di diversi santuari tra la prefettura di Ibaraki, nella zona di Tokyo, Kamakura e Kyoto. (Non tutte le miko a cui è stato chiesto hanno aderito alla ricerca. Molte non hanno ricevuto il permesso dal capo del santuario). Ho chiesto a queste ragazze quale immagine avessero dello Shintō e del loro ruolo all’interno di esso. Nonostante i tempi siano cambiati, è emerso come una buona metà tra le ragazze intervistate si senta ancora, non tanto per motivi religiosi, quanto per quelli storico sociali, legata all’immagine e al ruolo che la miko svolgeva nella società nei tempi antichi.

Alla domanda «quale pensi sia il ruolo della miko oggi?» molte di loro hanno risposto che il compito della miko è quello di essere una guida per coloro che si recano al santuario e quindi di rappresentare il nodo che lega i due mondi del sacro e dell'umano. Una ragazza ha affermato come il ruolo della miko adesso, come in antichità, sia quello di essere il legame tra dio e l'uomo. Nella sua risposta non ha mancato di sottolineare la propria felicità nell'essere la guida per le persone che visitano il tempio, e che queste, dopo aver visitato il santuario, possano tornare a casa soddisfatte grazie anche a lei, che ha svolto il proprio ruolo con interesse e devozione. Queste ragazze si definiscono spesso, nelle interviste, come «l'aiutante della divinità», la figura che serve il tempio e svolge il compito di essere ponte fra divino e umano, ma anche colei che mantiene vivo il ricordo della tradizione giapponese, che è tenuta a spiegare ai visitatori del santuario.

Dalle interviste è emerso come vi siano anche delle ragazze che, seppur in numero davvero ridotto, continuano a svolgere il lavoro di miko anche dopo i trent'anni, spinte proprio dalla passione o dall'esperienza accumulata durante il tempo impiegato a gestire il santuario. Solitamente queste sono distinte dalle miko comuni per il colore dell'hakama 袴 che indossano, non più rosso ma di altri colori, tra cui il viola e l'azzurro (è stato possibile ottenere tali notizie dall'intervista svolta a voce ad una miko del santuario Kasama Inari nella prefettura di Ibaraki).

Si può quindi affermare come in antichità fosse lo Shintō a valorizzare la donna attraverso la figura della miko, mentre oggi sembra essere quest’ultima, pur nelle sue trasformazioni e contraddizioni, a ridare forza ad una tradizione così antica che, come molte altre, fatica a farsi spazio nella modernità.

Molte di queste ragazze infatti, pur non conoscendo nella sua totalità la storia delle miko e/o non considerandosi shintoiste o comunque fedeli all'aspetto religioso del culto, ne riconoscono la grande importanza sociale. Anche se spesso viene scelto come un semplice lavoro part-time, le ragazze continuano a riconoscerne quindi il valore comunitario e culturale; lo Shintō diventa la fiamma della tradizione da custodire e tramandare, che non deve essere spenta dalle luci artificiali della modernità. Il sentirsi ponte fra divino e umano, il mezzo affinché gli elementi più antichi del Giappone non vadano persi: è in questa consapevolezza che possiamo rintracciare il legame tra le miko del passato e quelle odierne.

Il legame tra la donna e lo Shintō, nel caso specifico della miko, rimane così, per quanto possa essere mutato, fortissimo. Non solo la presenza della donna all'interno dello Shintō non viene rinnegata, anzi, su di essa il culto ha poggiato e ancora oggi poggia le sue basi e caratteristiche più forti.


Bibliografia

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